PARLAMENTO, QUIRINALE E RIFORME

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Oportet ut scandala eventiant?

L’Italia è alle prese con l’ennesimo “scandalo”. Per venire a capo del “verminaio” di spioni, anziché affidarsi alla magistratura, persino il ministro di Grazia e Giustizia ventila una “commissione parlamentare d’inchiesta” che (dati gli umori partitici prevalenti) potrebbe finire con sei diverse relazioni, cioè altrettante “mezze verità”, come accadde in passato. Dall’Unità il Paese ha contato decine di “scandali” per i motivi più disparati. Rimane celebre quello della Banca Romana, che coinvolse centinaia di notabili e costrinse Giolitti a rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio e a trasferirsi in visita alla figlia a Charlottenburg (Berlino) nel timore di un mandato di cattura. Gli subentrò Francesco Crispi, proprio il “politico più coinvolto nell’“affare”. Altro clamore suscitò lo scandalo dell’espansione edilizia di Roma, costato le dimissioni da ministro della Real Casa di Urbano Rattazzi jr, detto “sub-urbano”. Poi si susseguì una filza di scandali sino all’avvento del governo di Mussolini, che si valse del sottosegretario all’Interno, Aldo Finzi, per imbrigliare le Case di gioco: un boccone ghiottissimo. A tacere dell’uso della criminalità politica (lo ricorda lo storico Gianpaolo Romanato nell’equilibrato volume “Giacomo Matteotti: un italiano diverso”, ed. Bompiani), nel 1925-1926 il regime imbavagliò e annientò l’informazione e l’opposizione. Neppure dieci anni dopo Mussolini nominò suo genero Galeazzo Ciano, ministro plenipotenziario, a capo dell’Ufficio stampa e propaganda, nel 1935 trasformato nell’altrettanto sfacciato Ministero della cultura popolare (brevius Minculpop), che impose ai giornali “fogli d’ordine” e “veline”. Le ruberie continuarono, ma vennero celate, mentre gli ingenui sconsolati lamentavano: “Ah, se il duce sapesse…”. Il capo del governo sapeva benissimo: intercettava (persino se stesso), schedava, ricattava e “perdonava”.

Con l’avvento della Repubblica gli scandali hanno continuato a inondare le cronache: da quello italo-vaticano del 1948 intestato a monsignor Edward Prettner Cippico (1905-1983) all’importazione di banane e sino all’“affare” P2, che precorse di un decennio Tangentopoli e l’effimero successo di “Mani pulite”. Per usura della fantasia si susseguirono P3, P4 e l’immaginaria superloggia “Ungheria”, gioia e mestizia di un magistrato in pensione, nonché complicati intrecci finanziari, politici, giornalistici. Dinnanzi al labirinto degli scandali i cittadini si ritraggono. Anziché cercar di capire disertano i seggi elettorali. Gli astenuti ormai superano il livello di guardia della democrazia, che è sinonimo di potere dei cittadini, vanificato in assenza di partecipazione alla vita politica almeno col voto. A poco giova osservare che in altri Stati (dittatoriali, autoritari, sovranisti, populisti, gerontocratici, come gli USA, o allucinati da fondamentalismi teocentrici), le cose non vanno molto meglio o persino peggio. Accadeva già in passato. Mentre in Italia imperversava il già citato scandalo della Banca Romana al di là dell’Atlantico esplose quello del Canale di Panama, dalle dimensioni di gran lunga maggiori. In conclusione, ogni Paese, anche se a sovranità limitata qual è l’Italia dal 1943, deve curare i propri mali senza attendere panacee dagli altri.

 I “richiami” del Presidente Mattarella

Il 5 marzo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato l’attenzione dei cittadini sui capisaldi del suo “mandato”. Lo ha fatto nell’incontro con una delegazione di giornalisti (Casagit) per rimarcare, affinché trapelasse al di là del Quirinale, che “frequentemente il Presidente della Repubblica viene invocato con difformi, diverse motivazioni”. A tutti Mattarella ha scandito: “Il Presidente della Repubblica non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è cosa ben diversa”. La promulgazione, ha aggiunto, è l’atto “indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo e che questo testo non presenta profili evidenti di incostituzionalità”. Molti si sono domandati se stesse avanzando un generico e astratto “caso di scuola” o si riferisse a una realtà incombente, a qualche aspirante travalicatore: un interrogativo lecito a fronte del ben noto disegno di riforma della Costituzione (n.d.r. il DDL935 in esame al Senato) che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio dal profilo politico superiore a quello del Capo dello Stato.

Per molti aspetti i poteri di quest’ultimo ricalcano lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848, poi esteso al regno d’Italia. Il re, esso recita, “è il capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra […] nomina a tutte le cariche dello Stato” (come il Presidente della Repubblica che “nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato”), “può far grazia e commutare le pene”. Per altri, però, sovrasta l’antico sovrano. A differenza di quanto era in potere del Re, il Presidente “prima di promulgare la legge può, con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”. Se queste la confermano (ovviamente negli identici termini) essa deve essere promulgata. Il presidente, inoltre, può accompagnare la promulgazione con osservazioni scritte: i dubia, che non ne inficiano l’applicazione ma costituiscono una pubblica riserva. Gli articoli 76 e 77 della Carta vigente intendono arginare gli abusi del governo, che non può legiferare “se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, né può, “senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria”, fermo restando che detti decreti “perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”: vincolo perentorio ma aggirato da governo con l’emanazione di nuovi decreti legge di pari tenore o facendo ricorso ai famigerati decreti del presidente del Consiglio dei ministri, che non sono soggetti a voto parlamentare e, come tutti ricordano, imperversarono a fronte della epidemia.

 La condivisione giuridica

Quindi, Mattarella ha sottolineato la differenza tra il regime vigente e quello statutario su un punto sensibile e rilevante: la sanzione delle leggi da parte del Capo dello Stato. Nell’attuale ordinamento, in forza del comma 5 del già citato articolo 87 della Carta, il Presidente “promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti”. Per lo Statuto, invece, “il Re solo sanziona[va] le leggi e le promulga[va]”. La “sanzione” (sinonimo di approvazione) conterrebbe la “condivisione” delle leggi da parte del sovrano, che se ne assumeva quindi la paternità, una sorta di corresponsabilità non solo politica ma “morale”, per così dire “a cospetto della storia”. Prendendo le distanze dal passato, Mattarella che ha tenuto a precisare: “Quando il Presidente promulga una legge non fa propria la legge, non la condivide, fa semplicemente il suo dovere”. Da “notaio”. Diverso era il regime statutario, perché “quando le Camere approvavano la legge, il re prima di promulgarle doveva apporre la sua sanzione, cioè la sua condivisione nel merito, perché aveva anche attribuito il potere legislativo. Fortunatamente non è più così. Il Presidente della Repubblica non è un sovrano, fortunatamente, e quindi non ha questo potere. Ha soltanto quello che ho descritto”. Il re nel 1938, con le leggi razziali, e poi nel luglio del 1943, era isolato. Così come potrebbe accadere anche al Presidente della Repubblica, qualora gli venisse contrapposta una figura istituzionale direttamente investita dal “popolo”.

Ma i problemi sono numerosi: lentezza, carenza e caoticità dei decreti attuativi di leggi formulate in maniera confusa e contraddittoria e quindi destinate a risultare irrilevanti o, peggio ancora, a far proliferare il contenzioso. E se le Camere approvassero una legge in netto contrasto con il sentire morale del Capo dello Stato, quali strumenti avrebbe quest’ultimo per negarne la promulgazione? A fronte della crescente astensione degli elettori, la “volontà” delle Camere è sempre più lontana da attuare il comma 2 dell’articolo 1 della Carta: “La sovranità appartiene al popolo…”. Se esso non partecipa, si autoesclude, ma anche le istituzioni ne risultano indebolite. Alla fin fine tutti debbono fare i conti con la Storia.

Aldo A. Mola

Immagine di copertina: Hieronymus Bosch, “L’imbonitore”. Se la comunicazione elettorale degrada a gara tra mimici, la “politica” scade ad avanspettacolo. Gli elettori ridono ma non votano.

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