Sul caso Moro la memoria è labile. Appunti dopo 46 anni

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IL QUADRO E IL DETTAGLIO

Dico la mia su alcuni punti emersi da molti commenti sul caso Moro. Da un punto di vista metodologico condivido il concetto di “verità complessa”. Tanto più vero se applicato al nostro Paese. Dove i conflitti esterni tendono a sovrapporsi a quelli interni, creando a volte inestricabili grovigli interpretativi. Conflitti politico-ideologici, sociali, geopolitici e persino etnici, se si considera la peculiarità geografica di uno Stato collocato lungo le frontiere più calde della storia. Non c’è dunque da stupirsi se in Italia la presenza di Servizi segreti (stranieri e nazionali, ufficiali e clandestini, civili e militari, di partiti e di gruppi industriali) sia sempre stata ad altissima densità, come in poche altre aree del globo. En passant, nelle zone intorno a via Massimi (dove molto probabilmente Aldo Moro fece una “sosta”, appena sequestrato dalle Br) e a via Caetani (dove venne poi trovato il suo cadavere) la densità d’intelligence era quasi pari a quella abitativa di Hong Kong. Nell’area di via Caetani, poi, era molto attiva in particolare l’intelligence culturale, che in epoca di guerra fredda, e con ogni probabilità anche durante il caso Moro, svolse un ruolo d’influenza molto importante.

IL COMPROMESSO STORICO

Cosa sarebbe accaduto se il PCI fosse andato al governo: l’Italia si sarebbe spezzata e una parte sarebbe finita nell’orbita sovietica? Domanda legittima, che riflette il comune sentire di larga parte dell’opinione pubblica. Innanzitutto, l’opzione “Pci nel governo” non è mai esistita concretamente nella testa di Moro, né in quella di Berlinguer. Era semmai un’idea suggerita -anzi, una condizione posta dal segretario socialista Francesco De Martino. Che però non fece neppure in tempo a formalizzarla perché nel 1976 fu defenestrato al congresso del Midas; e l’anno successivo, quando lo davano come probabile candidato al Quirinale, fu neutralizzato definitivamente con il sequestro del figlio Guido. In secondo luogo, benché scongiurata dalle cancellerie atlantiche, se l’eventualità di un governo con il Pci si fosse concretizzata, gli Usa del presidente democratico Jimmy Carter avevano già predisposto contromisure: ai comunisti sarebbero stati assegnati solo ministeri secondari, e comunque non avrebbero avuto alcuna possibilità di accesso ai segreti Nato sensibili. Quindi è ragionevole supporre che non sarebbe accaduto nulla di catastrofico. Anche perché l’Italia era già stata messa “sotto tutela” dal Fondo monetario internazionale, a causa del nostro spropositato debito pubblico. La liquefazione territoriale, semmai, fu un rischio corso negli anni successivi all’assassinio di Moro, nella lunga catena di eventi che fecero precipitare il Paese nella crisi della Prima Repubblica.

Un “pericolo comunista”, negli anni Settanta, tuttavia esisteva. Eccome! Però non era quello dei cosacchi a San Pietro. Paradossale, ma vero: il pericolo era costituito dalla maturazione democratica del Pci berlingueriano. Edgardo Sogno, il capo partigiano monarchico su cui il SOE britannico aveva investito sul lungo periodo, diceva che lui avrebbe preferito un PCI filosovietico ma ininfluente a un PCI guidato dal «marchese Berlinguer, capace di esercitare un fascino persino sul mio amico Gianni Agnelli». E più o meno così la pensavano anche a Mosca. Eh, sì. La minaccia proveniva dal “compromesso storico”, politica di lungo periodo per il passaggio dal regime bloccato alla democrazia dell’alternanza, che aveva come presupposto il distacco del Pci dall’orbita sovietica. Da chi era temuto quello che Cossiga definiva il «secondo compromesso storico dopo quello costituzionale tra De Gasperi e Togliatti»? Temuto al punto da pianificare persino azioni illegali e clandestine per bloccarlo?

Innanzitutto, dai conservatori dell’Est e dell’Ovest, i ferrei custodi dell’equilibrio ingessato di Yalta. Da un lato, i brezneviani, cultori della dottrina della sovranità limitata, temevano che le idee berlingueriane contagiassero i già traballanti equilibri nel Patto di Varsavia, dopo le ondate riformiste della rivolta ungherese e della primavera cecoslovacca. Dall’altro lato, la destra super-atlantista, temeva a sua volta che il “modello italiano” si diffondesse nell’Europa latina, dove esistevano forti partiti comunisti influenzabili da Berlinguer. Il “compromesso storico”, insomma, da alcuni era visto come una sorta di bomba ad orologeria sotto gli equilibri di Yalta. Ma da altri – tema che dovrà entrare nella discussione pubblica, prima o poi – come un pericoloso tentativo di “normalizzazione” dell’Italia post-bellica. Cioè, come una possibilità di emancipazione dai vincoli imposti alla nazione sconfitta in guerra. Tra i quali c’era anche una sorta di diritto di supervisione sulla nostra politica interna e mediterranea, riconosciuto alla Gran Bretagna da Usa e Urss, dopo Yalta.

Questo è il quadro, ormai documentabilissimo, dentro cui matura e si consuma la tragedia Moro. I brigatisti rossi c’entrano. Certo che sì! Ma sono un dettaglio, dei comprimari, di cui sbarazzarsi una volta esaurita la loro ragione sociale.

LE «DIVERSE AZIONI SOVVERSIVE» DEI SERVIZI BRITANNICI

Quali erano gli «altri metodi» evocati dall’Information Research Department nel 1969 e le «altre azioni sovversive» decise dal governo britannico nel 1976 per contrastare la politica di Aldo Moro? Per scoprirlo, Mario Cereghino ed io abbiamo esaminato la monumentale documentazione di Kew Gardens sulla riorganizzazione del SOE, subito dopo il secondo conflitto. Lo Special Operations Executive, fondato da Winston Churchill nel 1940, non fu mai sciolto. Fu trasformato invece in un Servizio segreto clandestino per la guerra politico-economica contro paesi nemici, come quelli del blocco sovietico; ma anche contro paesi amici e alleati, come l’Italia, concorrenti del Regno Unito nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Un processo di ristrutturazione iniziato già nel 1944 e durato almeno dieci anni.

Fra i tanti documenti esaminati, oggi vi segnalo questo memorandum dell’intelligence britannica del maggio 1945 (declassificato solo nel 2013), in cui vengono indicati con estrema precisione alcuni dei compiti del futuro Soe. Inizialmente riguardava Spagna e Portogallo, ma poi furono inseriti altri paesi, fra cui l’Italia. Ecco:

1- «Ordinamento per il Soe del dopoguerra nella penisola iberica»

2- «Screditare i pubblici ufficiali e i cittadini riluttanti ad assecondare gli interessi britannici», «in casi estremi anche attraverso l’uso della violenza»

3- «Allestire delle organizzazioni in grado di agire tramite il ricorso alla violenza, in casi di crisi nazionale o internazionale»

4- «Infiltrare le organizzazioni rosse»

5- «I metodi non identificabili del Soe: propaganda, corruzione, sabotaggio, violenza contro le persone»

NEL FEBBRAIO SCORSO È MANCATA MARIA FIDA MORO. AVERLA CONOSCIUTA, È STATO UN PRIVILEGIO.

Quando Maria Fida mi confidò come si viveva nella famiglia moro alla vigilia del sequestro

 

Ecco alcune pillole della sua testimonianza, pubblicata nel libro “I silenzi degli innocenti” (Fasanella e Grippo), Rizzoli 2006.

«Sono Maria Fida, la primogenita di Aldo Moro. (…) L’assassinio di mio padre fu un colpo di Stato. L’ho sempre pensato e l’ho sempre detto. E ne ho pagato il prezzo. (…) Avevo compiuto trentun anni da qualche mese, quando sequestrarono papà. Luca, mio figlio, ne aveva solo due. (…) In famiglia pensavamo che un evento terribile era nell’ordine delle cose. Era come se ce lo aspettassimo, soprattutto dopo il rapimento del figlio di Francesco De Martino, Guido… Erano tre i personaggi politici che, negli anni precedenti, avevano contribuito a rimettere in gioco il Pci: il socialista Francesco De Martino, il comunista Enrico Berlinguer e il democristiano Aldo Moro. Berlinguer non era molto tranquillo (…) nel 1973 avevano tentato di ammazzarlo in Bulgaria simulando un incidente stradale. A De Martino, nell’aprile 1977, avevano sequestrato il figlio per impedire al padre di essere eletto Presidente della Repubblica. E papà, anche se non lo lasciava trasparire, era molto preoccupato.  Noi, in famiglia, lo eravamo più di lui. (…) un giorno mi decisi a chiedergli se lui ipotizzasse di poter essere rapito. Ricordo che mi rispose: «Nella vita non si può mai sapere». Tradotto dal suo linguaggio ermetico, voleva dire di sì. (…) Ricevevamo minacce continue. Non solo mio padre, ma tutta la famiglia era esposta a intimidazioni e pressioni.

Ricordo il 3 agosto 1974, altra data infausta (…) Papà era ministro degli Esteri e avrebbe dovuto raggiungerci in treno a Bellamonte, sulle montagne del Trentino, dove di solito trascorrevamo insieme le vacanze estive. Era già salito sulla sua carrozza, alla stazione Termini, e il treno stava per partire, quando all’ultimo momento arrivarono dei funzionari e lo fecero scendere perché doveva tornare a firmare alcune carte. A causa di quell’imprevisto, perse il treno e fu costretto a raggiungerci in macchina. Un ritardo provvidenziale, perché quel treno era l’Italicus. (…)

Altre volte, un’infinità di altre volte, si era salvato per il rotto della cuffia. Un giorno esplosero le gomme della sua auto, che andò fuori strada. (…) Qualche tempo dopo, accadde di nuovo. (…) Qualche tempo dopo, papà soffriva di un malanno da diverse settimane, e stava peggiorando sempre più. Poi un giorno la mamma, che è infermiera della Croce Rossa, scoprì che alcune delle medicine con le quali papà veniva curato erano non solo inefficaci, ma addirittura pericolose, tanto che forse lo stavano avvelenando. Fece sospendere la cura e papà si riprese.

Potrei citarvi davvero tanti altri episodi strani, ma ci vorrebbe forse un libro intero… (…)  La normalità della nostra famiglia era vivere in attesa di precipitare in un burrone. Vivevano così i miei genitori, innanzitutto. E poi noi figli, io in particolare, che ero la primogenita. Mi sentivo responsabile e volevamo proteggerlo. Facevamo di tutto per non farlo uscire di casa. Ricordo che mia sorella Agnese, piccolissima, nascondeva la sua tessere parlamentare sotto la cenere fredda del caminetto: aveva capito che, senza quella, papà non sarebbe potuto partire in treno. E mio fratello Giovanni, anche lui piccolissimo, spesso si addormentava, davanti alla porta d’ingresso, per impedirgli di uscire. Proprio Giovanni! Un giorno carpii spezzoni di una conversazione concitata dei miei genitori, che si parlavano in francese. Quella era la lingua che usavano, insieme al tedesco, quando volevano essere sicuri che noi non capissimo. Io invece qualcosa afferrai, e ne rimasi sconvolta. Qualcuno aveva minacciato papà di portare via Giovanni, il mio fratellino adorato, e di rimandarlo indietro, tagliato a pezzi, in una valigia. Quell’episodio ha sconvolto la mia infanzia, la mia giovinezza e la mia età adulta. (…)»

 

Giovanni Fasanella

Consigliere Comitato Scientifico ISPG

L’ISPG e la Struttura organizzativa – ISPG (istitutostudipolitici.it)

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