55 anni dalla PRIMAVERA di PRAGA

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21 agosto 1968: invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia. 

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Franco Astengo:

“Poche righe per ricordare Praga ’68 dal “nostro” punto di vista (n.d.r.: socialista) prima che la “damnatio memoriae” condanni tutto e tutti in un unico calderone.

A distanza di 55 anni dalla repressione della “Primavera di Praga” da parte dell’URSS brezneviana e dei paesi del Patto di Varsavia (esclusa la Romania) mi permetto di dedicare questo ricordo al dibattito che in quel momento investì il PCI e si tradusse – alla fine – nell’esito di una spaccatura nella sinistra del partito.

Si trattò del momento “topico” di quella vicenda che poi avrebbe preso la denominazione di “Manifesto” (la rivista diretta da Magri e Rossanda sarebbe uscita con il primo numero il 23 giugno del 1969). Le posizioni del “Manifesto”, che costarono a chi aveva avuto il coraggio di elaborarle, la radiazione dal PCI partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo il socialismo nella democrazia”, magari aggiungendo che democrazia come continua espansione dell’iniziativa dei più non bastava.

Era necessario, invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice dell’autoritarismo.

Bisognava interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, e avesse bisogno di un soffocante apparato repressivo e di un’ideologia autoritaria, che pure gli creavano non pochi problemi.

Al PCI, alla sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere compiendo uno sforzo serio per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell’economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l’egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all’interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.

Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema. Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un’opposizione cui dar vita dall’interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un’alternativa.

La posizione del Manifesto restò sostanzialmente isolata sia sul piano internazionale (spaventoso il ritardo del PCF in rotta con gli intellettuali e del tutto sordo al ‘68 studentesco), sia all’interno del sistema politico italiano con il PCI non ancora minimamente attrezzato ad affrontare il tema del centralismo democratico (nonostante un dibattito interno “aperto” almeno fin dal convegno del Gramsci del ’62 sulle tendenze del capitalismo e poi proseguito nell’XI congresso), il PSI impigliato nelle spire dell’esito negativo delle riunificazione socialdemocratica e lo PSIUP la cui maggioranza si era allineata alle posizioni dei “carristi” perdendo quelle posizioni di originalità che pure potevano trasformarlo in un soggetto critico e dialettico nell’ambito della sinistra italiana (fu quella l’occasione dell’abbandono del partito da parte di Lelio Basso).”

Franco Astengo

giornalista e politico

Foto: Bratislava, agosto 1968, di Ladislav Bielik


Annotazioni storiche

dal sito La Primavera di Praga che non abbiamo capito, una lezione per il presente – BUONGIORNO SLOVACCHIA.

 

” C’è una storia che non abbiamo capito, e continuiamo a non capire, ed è la storia dell’Europa centro-orientale. Il vizio di guardare a Praga, a Budapest, a Varsavia con le stesse categorie concettuali con cui si guarda a Parigi, Londra e Berlino, è antico. L’errore di prospettiva risulta ancora più evidente per gli eventi del secolo scorso, e in particolare per la Primavera di Praga.

Breve riassunto dei fatti 

I fatti sono noti. Era il 5 gennaio del 1968 quando Alexander Dubček venne eletto segretario del Partito comunista cecoslovacco, un’elezione che portò alle dimissioni del vecchio Antonín Novotný dalla carica di presidente, il tutto con il benestare di Breznev il quale non poté, almeno in un primo momento, ignorare il sostegno che Dubček aveva nel partito e nel paese. Il 22 marzo dello stesso anno prese avvio quella stagione di riforme destinate a costruire il “socialismo dal volto umano“. Riforme economiche ma anche politiche, votate a una maggiore democrazia pur nell’alveo del monopartitismo. Un contributo essenziale a quella stagione venne dagli intellettuali raccolti intorno alla rivista Literární listy che, sfidando apertamente la censura, denunciarono l’oppressione di Novotný senza incorrere in conseguenze. Una nuova stagione di libertà sembrava iniziare. Furono i carri armati sovietici a interromperla bruscamente quando, il 21 agosto, entrarono a Praga ristabilendo il tallone di ferro brezneviano. La Primavera di Praga è, da allora, il simbolo della ricerca di libertà e democrazia da parte dei popoli sottoposti alla cattività sovietica. Eppure, in quel 1968, la Primavera di Praga non trovò nei movimenti studenteschi e nelle lotte operaie quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario. Né lo ebbe dai partiti comunisti europei. Perché?

“Praga è sola”, l’indifferenza dell’occidente

Cinquant’anni dopo quei fatti un libro ci aiuta a capire: “Il sessantotto sequestrato“, a cura di Guido Crainz¹, porta il lettore nella temperie dell’epoca e una cosa, subito, appare chiara: l’occidente non capì. Il “sessantotto” di Parigi, Torino, Trento, Berkeley, non seppe e non volle comprendere le ragioni di Praga. Accuse di “controrivoluzione” piovvero sulle proteste, le richieste di un ‘socialismo dal volto umano’ vennero bollate come eresia, l’invasione militare sovietica trovò l’appoggio dei partiti comunisti. Il maggio francese non fu meno indifferente alle sorti di Praga e solo qualche timido segnale di solidarietà giunse da oltre oceano: “Welcome to Prague” stava scritto sui muri dell’università di Berkeley all’indomani della repressione poliziesca. Ma fu troppo poco. “Prigioniero dell’ideologia – scrive Crainz –  il movimento studentesco finì per rinchiudersi in essa”. La nascente sinistra extraparlamentare italiana riuscì a vedere nella primavera praghese “solo il ritorno al sistema capitalistico”. Posizioni estreme si registrarono nella stampa fedele all’ortodossia marxista che descrive gli studenti di Praga come “revisionisti che hanno tradito il loro popolo”².

Non servirono le parole di Umberto Eco, che andò a vedere di persona quel che stava accadendo, a ricordare che “non c’è traccia di reazione di destra” nella Primavera, e non bastò la lucida e profonda conoscenza della politica e cultura boema di Angelo Maria Ripellino: l’ideologismo manicheo ebbe il sopravvento. Di fronte all’invasione il Partito comunista italiano si trovò diviso. Crainz riporta i verbali dell’Ufficio politico del PCI, con un Terracini deciso “a non smussare gli angoli” e un Pajetta pronto a “non pagare certi prezzi nemmeno se si dovesse rinunciare a un’edizione dell’Unità” (riferimento, questo, ai finanziamenti sovietici). Ma occorreva evitare di “porre come motivo centrale la questione della democrazia nei paesi socialisti”, per dirla con Amendola, e così il partito finì per smussarli quegli angoli, anche a causa delle pressioni “e minacce” sovietiche. Una posizione che non piacque a tutti. “Praga è sola“, titolò allora il Manifesto, pagando con l’estromissione dal partito. Ma nemmeno il gruppo del Manifesto, che pure sostenne il dissenso cecoslovacco come quello di altri paesi dell’est, accettò la natura democratica delle proteste praghesi, convinto che “dallo stalinismo si esce solo a sinistra” e rimanendo fedele ai riferimenti culturali maoisti. Differenze sessantottine. Nel complesso, la sinistra italiana ed europea non capirono. I ragazzi di Praga cercavano democrazia, quelli di Parigi e Torino volevano distruggerla, la democrazia, o quantomeno superarla ritenendola colpevole di avere promosso la società dei consumi, le disuguaglianze sociali, gli interventi militari… ”

 

 

 

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