Festa della Liberazione: ci vuole “più Italia”

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Il contribuente e lo Stato

Con buona pace dei “sondaggi”, alla stragrande maggioranza degli italiani pochissimo importa di chi venga eletto presidente della repubblica francese e di come vada a finire l’assedio dell’acciaieria nell’Ucraina meridionale. Non sono né populisti né sovranisti, etichette di comodo appiccicate per separare i cittadini in “buoni” (genuflessi al pulpito dei “narratori”) e “cattivi” (refrattari alla parola d’ordine “credere, obbedire, combattere”). Sono persone che si interrogano sul presente, riflettono in autonomia e sospettano che tanti racconti siano specchietto per le allodole.

Ai cittadini importa altro. Non hanno affatto bisogno di sentirsi dire come sono. Lo vedono. Qualche cosa sanno e la dicono: ma a persone fidate, non ai media, che divulgano solo le opinioni gradite ai propri mandanti. “Taci, il nemico ti ascolta” era la direttiva imposta quando ancora non si sapeva che tutto, ma proprio tutto, era (come è) intercettato, registrato, archiviato a futura memoria di chissà chi, chissà quando e chissà perché. L’Italia era il Paese nel quale anche un certo Benito Mussolini auscultava tutti ma, lo sapesse o meno, aveva il suo stesso telefono sotto controllo. A liberarla da quella gabbia non furono i “partiti” ma il Re. I cittadini vorrebbero che le Poste funzionassero, che i treni non fossero solo costosissime freccerosse/bianche, che le voraci autostrade, costruite coi quattrini degli italiani, non fossero esose quali sono e non sempre intasate da “lavori in corso” con cantieri non chiudono mai. Si attenderebbero di non essere perseguitati dall’Agenzia delle entrate per inezie mentre l’evasione naviga maestosa. I cittadini si aspettano parole chiare sulle epidemie antiche, nuove e venture, non da ventriloqui di ormai disciolti commissariati e comitati vari ma dal governo: cioè dal presidente del Consiglio, che ha la responsabilità della conferma in carica del lugubre ministro Roberto Speranza. Potremmo allungare all’infinito la litania delle legittime attese di cittadini oberati da un il prelievo fiscale che ha superato il 51%, dediti al risparmio ma sempre più impoveriti da ricorrenti ondate di tasse annunciate con formule magiche, come fossero misteriose piaghe d’Egitto.

Ciò che ci si attende

In sintesi, la stragrande maggioranza degli italiani chiede venga emanata una legge costituzionale di un articolo solo di poche parole: “Vivi e lascia vivere”. Lo chiede al presidente della repubblica Sergio Mattarella e lo chiede alle due Camere, indecise a tutto se non a trascinarsi agonizzanti in attesa che chissà quale portento le conservi in vita, benché sia ormai chiaro che non sanno partorire né una legge elettorale né gli urgentissimi regolamenti che ne dovrebbero derivare. Sull’esito del voto prossimo venturo nessuno scommette un centesimo. Sino alla scorsa estate faceva notizia l’Afghanistan. Chi più se ne occupa da quando l’Alleanza Occidentale si dileguò il ferragosto scorso, lasciando nelle mani dei talebani baracca e burattini (compresa la tragica sorte riservata alle donne afgane) dopo una “operazione militare speciale”. Lo stesso vale per la miriade di conflitti armati o sotto traccia in corso nei sette continenti del pianeta.

Il futuro dell’Italia politica

Da decenni si ripete che destra e sinistra sono categorie e/o classificazioni “politico-partitiche” superate dai fatti. Però basta un nulla a far scattare il richiamo della foresta del manicheismo: la richiesta di esibizione di “patente e libretto” di virtù democratica. Ma chi ha titolo per vidimare e vagliare? Con argomenti settari si mette persino in discussione l’evento scelto dall’Associazione Nazionale Alpini per festeggiare se stessa. I Bersaglieri festeggiano Porta Pia con cappellani al seguito e senza scandalo alcuno. Unicuique suum. Poiché le ricorrenze civili (come il 25 aprile) sono occasione non solo di fiaccolate e grigliate ma anche per riflessioni sullo stato della democrazia parlamentare e sulle sue prospettive, vanno ricordati alcuni “fondamentali” del quadro politico. I cittadini in maggior parte sono “apoti” (ndr. termine inventato da Prezzolini nel ’22 per dire che non la beve). Assistono sconcertati e disgustati alla gara tra capibastone di partiti medi, piccoli e minimi per piazzare loro esponenti nelle cariche che contano. E se ne tengono fuori. Non salgono sulla giostra. Già pagano involontariamente il biglietto perché essa continui a girare; ma almeno si astengono dall’applaudire. All’epoca del bipolarismo la scelta era chiara: tra l’Italia e l’anti-Italia. Ma oggi? Oggi occorre più Italia. Ma la strada è scoscesa. Secondo i sondaggi, anche il partito (o movimento) più votato è una debolezza. Deve fare i conti con l’altro 80% dei votanti: con cittadini in carne e ossa (come diceva Antonio Gramsci) sempre meno inclini a riconoscersi in parlamentari ondivaghi. In tale scenario, poiché la propensione alla rissa prevale su ogni ragionevolezza, alcuni da tempo accampano il diritto di essere incaricati di formare il governo se avranno un voto in più rispetto ad altre forze della stessa area. Ma al momento l’“area” è… aerea: non c’è. E più passa il tempo più diviene labile. La Costituzione del ’48 (baluardo contro rovinose derive) dice che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri”. Non è scritto da nessuna parte che debba nominare chi ha un voto più di un altro partito. Nel 1981 Pertini, socialista, nominò presidente del Consiglio Spadolini, segretario del PRI, che all’epoca contava 16 deputati su 630. Non è scritto in alcun libro che si debba “investire” presidente del Consiglio il capo del partito che ottiene più voti. Sic stantibus rebus anziché perseverare diabolicamente nella ricerca di motivi di divisione in fazioni corrive a innalzare insegne straniere gioverebbe “vestire all’italiana”, recuperare i colori dell’identità nazionale. Ciò non significa essere populisti, sovranisti né, meno ancora, nazionalisti, bensì unicamente consci del significato autentico dell’Unità d’Italia.

Il 25 aprile 1945 vinse anche il Regno d’Italia

Sconfitto nella guerra del 1940-1943 ma non disfatto, il Regno d’Italia intraprese la riscossa e avviò la ricostruzione. Non fu il Re a spingere l’Italia verso il regime fascista. Furono le Camere a votare le stupide leggi che anno dopo anno condussero il Paese dalla democrazia parlamentare al partito unico. Il sovrano costituzionale firmò ed emanò, come fa oggi il Presidente della Repubblica. Vi è motivo di riscoprire il ruolo della monarchia costituzionale nella storia d’Italia: di quel regno d’Italia che il 25 aprile 1945 aveva comandante del Corpo Volontari della Libertà il generale Raffaele Cadorna e Capo di stato maggiore generale il Maresciallo Giovanni Messe, in carica sino al 1° maggio 1945. Chissà se e come verranno ricordati nell’anniversario della Liberazione del 25 aprile 1945.

L’Italia per gli Anglo-americani, Unione sovietica e loro alleati aveva una precisa identità: era il Regno d’Italia di Vittorio Emanuele III che il 5 maggio 1944 aveva trasmesso tutti i suoi poteri al principe ereditario, Umberto, Luogotenente del regno, che aveva mantenuto la corona perché poteva guardare negli occhi, senza abbassarli, tutti i capi di Stato dei Paesi vincitori, a cominciare dagli inglesi. L’Italia era una monarchia, impegnata dal 25 giugno 1944 a sottoporre a “verifica” la forma dello Stato da parte dei cittadini: un’assemblea elettiva o un plebiscito, come proposto dal Comitato di Liberazione Nazionale sin dall’ottobre 1943. Il presidente del Consiglio, già alla guida del governo dal giugno 1921 al febbraio 1922, era stato incaricato dal Luogotenente, non dal CLN. Se è vero che la libertà fu (ri)conquistata “con le armi”, non si deve dimenticare che la “liberazione” dell’Italia fu dovuta alle Armate degli Anglo-americani e ai Gruppi di Combattimento allestiti dal regio governo, che per bandiera avevano il tricolore, con scudo sabaudo nel bianco. Anche questi sono “fatti”.

Aldo A. Mola

Immagini tratte da: La partecipazione delle Forze Armate alla Guerra di Liberazione e di Resistenza (8 settembre 1943 – 8 maggio 1945) (difesa.it)

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