Referendum e legge elettorale. Una partita a carte coperte

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Mercoledì scorso la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i ricorsi (del comitato promotore del NO, di +Europa, del senatore De Falco e della Regione Basilicata) per conflitti di attribuzione tra poteri in materia di referendum costituzionale e accorpamento alle altre consultazioni elettorali (regionali, amministrative e suppletive). Si andrà quindi alle urne il 20 e il 21 settembre 2020 e si parte con la campagna elettorale per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari (400 deputati invece di 630, 200 senatori elettivi invece di 315). Una simile taglio comporta a cascata anche la revisione dei regolamenti parlamentari (per adattare il funzionamento delle Camere ai nuovi numeri) e della legge elettorale. Per la seconda volta, dunque, una riforma costituzionale, più limitata rispetto a quella respinta dagli elettori nel 2016, intreccia il suo destino a quello delle norme con cui i voti dovrebbero trasformarsi in seggi. Con la legge n. 51/2019 è stata adattata la legge elettorale in vigore – Rosatellum – in modo che fosse applicabile anche al numero ridotto di parlamentari, salvo il problema di ridisegnare i collegi. Già allora erano emersi punti dolenti, soprattutto sulla rappresentanza in Senato: la riduzione dei seggi, infatti, renderebbe arduo accedere a Palazzo Madama anche alle liste minori che avessero superato lo sbarramento del 3% (solo in quattro regioni si distribuirebbero almeno dieci seggi nei collegi plurinominali, nelle altre sarebbe difficile ottenere eletti con meno del 10%).

L’attuale maggioranza (PD-M5S-LEU), che alla fine ha approvato la riforma, ha trovato un accordo di massima su un sistema proporzionale corretto, ritenuto più adatto per Camere con meno componenti, presentato alla commissione Affari costituzionali della Camera il 14 gennaio da Brescia (M5S): un sistema elettorale proporzionale a liste concorrenti bloccate, senza collegi uninominali e senza possibilità di coalizzarsi. Il progetto prevede uno sbarramento nazionale del 5% e il “diritto di tribuna”, per attribuire eletti anche alle liste che, pur restando sotto la soglia, dimostrino di avere una forte presenza in certi territori[1]. A luglio sono state presentate anche altre proposte[2], ma al momento non c’è un testo base e non sono stati presentati emendamenti; oggi Di Maio propone di ridurrre la soglia al 4%. In pieno agosto e a poco più di un mese dal referendum, questo è l’unico testo “quasi ufficiale” su cui discutere: un po’ poco per potersi confrontare con cognizione di causa. La questione è vitale per alcune forze politiche  e può essere determinante per decidere la posizione da tenere al referendum; altri invece sono già convinti per il «Sì» o per il «No», a prescindere dalla legge elettorale. Quali scenari sono possibili, a questo punto? Se vincerà il «No», più che ragionare di legge elettorale, è in gioco il destino del governo e della stessa legislatura: potrebbero finire in tempi brevi o durare un po’ di più – alle porte ci sarebbe la sessione di bilancio – ma non oltre luglio 2021. Se vincerà il «Sì», quasi certamente si dovrà attendere che la nuova legge elettorale entri in vigore e che una nuova Commissione di esperti disegni i collegi; a quel punto, tra necessità tecniche e scelte politiche, si potrebbe di nuovo arrivare alla fine di luglio del 2021. Lì, infatti, scatteranno gli ultimi sei mesi di mandato da Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella, il “semestre bianco” durante il quale non potrà sciogliere le Camere. Se la legislatura arriverà fin lì, inevitabilmente proseguirà almeno fino all’elezione del nuovo capo dello Stato. Nelle prossime settimane, quindi, si gioca il futuro politico dell’Italia: la legge elettorale è solo un tassello nel mosaico politico.

Gabriele Maestri

 

Note:

– Maggiori informazioni sull’election day sono disponibili sulle pagine del Ministero degli Interni

– La legge n. 51/2019 (che alla base aveva il progetto di legge presentato dai senatori Gianluca Perilli e Stefano Patuanelli del MoVimento 5 Stelle e Roberto Calderoli della Lega) ha modificato le leggi elettorali di Camera e Senato, eliminando i numeri fissi dei seggi da attribuire nei collegi uninominali e precisando che in questi si distribuiscono i tre ottavi degli scranni in ogni ramo del Parlamento (senza contare quelli riservati alla circoscrizione Estero). Se vincesse il «No», la legge elettorale con cui si è votato nel 2018 (n. 165/2017) sarebbe applicata nello stesso modo, visto che le proporzioni erano già di tre ottavi dei seggi attribuiti in collegi uninominali e cinque ottavi da distribuire in collegi plurinominali; se prevalessero i «Sì», la legge elettorale sarebbe comunque applicabile, a patto ovviamente di rivedere il disegno territoriale di collegi uninominali e plurinominali, visto che ci sono meno seggi da distribuire.  

[1] Per capire chi ha diritto alla “tribuna” si calcola per primo il quoziente, cioè il numero di voti necessari a ottenere un seggio in una certa circoscrizione: si usa il “metodo Imperiali”, dividendo il totale dei voti ottenuti dalle liste in quella circoscrizione per il numero dei seggi da distribuire in quel territorio, aumentato di due (per rendere meno inaccessibile il “diritto di tribuna”); si divide poi il numero di voti ottenuti da ogni singola lista per il quoziente appena ottenuto e si vede se la divisione dà almeno 1 come risultato. Alla Camera servono almeno tre quozienti in due regioni diverse (lì in un collegio plurinominale si attribuiscono al massimo 8 seggi: chi non ha ottenuto almeno il 5% a livello nazionale difficilmente può eleggere deputati senza raccogliere almeno il 10% in tre circoscrizioni e ciò può non bastare in collegi con meno eletti); al Senato, eletto su base regionale, basta ottenere almeno un quoziente in una regione.

[2] Si tratta delle proposte della Lega (con cui si propone il semplice ritorno alle “leggi Mattarella” approvate nel 1993), di Fratelli d’Italia (con cui si agisce sul sistema ora in vigore, ripristinando il numero fisso dei collegi uninominali per sfruttare il disegno di quelli esistenti e introducendo un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione che abbia ottenuto almeno il 40% dei voti espressi) e di Forza Italia (con cui si agisce sempre sul sistema attuale portando – in caso di riduzione dei parlamentari – i seggi da distribuire nei collegi uninominali al 59% e quelli attribuiti con il sistema proporzionale al 41%).

 

 

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