Nell’aprile 1942 ci prova Luigi Rusca, un influente manager della Mondadori in contatto con i Servizi inglesi. Fa la spola tra Milano e Berna, dove ha sede il quartier generale del Soe. È latore di una proposta del maresciallo Pietro Badoglio, il capo del regio esercito. Prevede la destituzione di Mussolini e la fine del regime fascista in cambio di «un posto [per l’Italia] al tavolo della pace nonché uno status positivo nel futuro assetto del globo». I preparativi con il Soe vanno avanti per quasi un anno, ma alla fine il piano viene bocciato dal War Cabinet, presieduto in quell’occasione da Anthony Eden, il ministro degli Esteri. Ci prova poi un altro manager di fama europea, Adriano Olivetti, molto stimato negli ambienti azionisti e in stretto contatto con Maria José del Belgio, la consorte di Umberto di Savoia. Anche l’industriale trova ascolto nel Soe di Berna. Il suo piano, in due fasi, ricalca in parte quello di Rusca. Prevede in fatti la destituzione di Mussolini e la sua sostituzione con Badoglio per arrivare alla fine delle ostilità. Il maresciallo si farebbe poi da parte per consentire la nascita di un governo di unità nazionale, in modo da pilotare la transizione verso un regime democratico a tutti gli effetti. Un governo provvisorio, quindi, espressione di un comitato antifascista che dovrebbe nel frattempo sorgere a Londra su iniziativa di personalità come Luigi Salvatorelli, Carlo Levi e Ugo La Malfa, con il sostegno dell’intero schieramento delle forze antifasciste. Olivetti, però, chiede che il piano per deporre il Duce, «perché non fallisca», venga attuato «poco prima dello sbarco» alleato in Sicilia. Il Soe di Berna approva. Ha molta stima del manager italiano: «È una persona dotata che ha sempre dimostrato un grande talento imprenditoriale. Se è un tipo in gamba, come noi riteniamo, al momento questa è la miglior scommessa che possiamo fare». Ma ancora una volta il governo britannico gela gli entusiasmi dello Special Operations Executive: «Non ci opponiamo ai contatti […] e alla possibilità di ricevere emissari a Londra per discutere un piano d’azione comune», scrive il Foreign Office alla stazione del Soe a Berna. «Tuttavia, il governo di Sua Maestà non intende riconoscere un comitato antifascista fuori dall’Italia.» E come mai? Perché è «inopportuno legarci a un comitato che potrebbe pretende re di entrare in un futuro governo italiano. Al momento del collasso dell’Italia, è nostro desiderio avere le mani totalmente libere per formare un governo adeguato agli interessi britannici». Insomma, per Churchill e il Foreign Office gli antifascisti sono al massimo ottimi agenti segreti, ma non degli interlocutori politici da prendere sul serio. La risposta lascia di stucco lo stesso Soe: «Risulta difficile adeguarsi sempre alla linea del Foreign Office. Loro si preoccupano della situazione italiana che seguirà all’occupazione alleata. Noi, invece, pensiamo alle operazioni che dovrebbero facilitare lo sbarco» alleato in Sicilia. Il 10 luglio 1943 le armate angloamericane cominciano a occupare la grande isola mediterranea. Il collasso del regime fascista è ormai questione di giorni. Quello che verrà dopo, però, è davvero un’incognita. Ad alimentare drammaticamente le incertezze sono i conflitti sotterranei tra i Servizi e il governo della Gran Bretagna, tra Londra e il fronte interno italiano, tra Downing Street e la Casa Bianca. Churchill non si sente un liberatore, ma un occupante fermamente intenzionato ad assumere il controllo assoluto dell’Italia sia dal punto di vista militare, sia attraverso una sostanziale continuità politico-istituzionale. In che modo? Riciclando innanzitutto i gerarchi anglofili, i meno compromessi cioè con la dittatura hitleriana e l’antisemitismo più estremo. Le forze antifasciste, che si sono temprate nella lotta clan destina al regime, reclamano invece una rottura radicale con il Ventennio e rivendicano un ruolo nei futuri assetti politi ci. Gli Stati Uniti d’America le appoggiano. Washington ha legami solidi soprattutto con il mondo liberaldemocratico e azionista. Ma punta gli occhi anche su De Gasperi. Il “bibliotecario” vaticano, raccomandato agli americani da Luigi Sturzo, è da qualche tempo uno degli informatori più affidabili dell’Oss. Il flusso dei suoi report è continuo e passa, come si è già detto, attraverso Myron Taylor, il canale tra Roosevelt e la Santa Sede. Dopo la nascita della Dc, è ulteriormente cresciuto l’interesse americano nei suoi con fronti e verso gli uomini che ha riunito attorno alle sue idee. De Gasperi non è più un semplice informatore. Ora è il lea der di un nuovo soggetto politico cattolico e, quindi, un potenziale interlocutore. E come tale finisce sotto la lente d’ingrandimento dell’intelligence Usa. Il 16 luglio 1943, a nove giorni dal pronunciamento del Gran Consiglio e dall’arresto di Mussolini, l’Oss invia a Washington le informazioni ricevute dalla fonte «664». Dietro quella sigla, si nasconde Ugo La Malfa, l’economista siciliano tra i leader del Parti to d’Azione. «De Gasperi è uno dei seguaci di don Sturzo», conferma «664». Dettaglio non irrilevante, visto che all’epoca il capo del vecchio Partito Popolare si trova proprio negli Stati Uniti, gradito ospite di Roosevelt. Secondo La Malfa, anche se non ha ancora promosso «alcuna attività clandestina efficace», la neonata Dc è comunque «in linea di principio antifascista» ed è in contatto permanente «con gli altri partiti di opposizione», ovvero gli azionisti, i socialisti e i comunisti. Al momento però, spiega sollecitando quasi un intervento su Pio XII, è fortemente condizionata dalle gerarchie vaticane e, su input del Papa, potrebbe assumere «una posizione antifascista più attiva». Il suo gruppo dirigente, a cominciare da De Gasperi, è costituito da «elementi di grande valore», conferma «664». Ne è prova il fatto che, anche se «tendenzialmente monarchico», il partito cattolico abbia accettato la proposta del conte Carlo Sforza di lasciare direttamente al popolo, a guerra finita, la libertà di scegliere la futura «forma di go verno» dello Stato italiano. Discendente di un’antica fa miglia patrizia milanese, diplomatico di lungo corso e politico liberaldemocratico, Sforza è uno strenuo oppositore del regime. Ha combattuto a viso aperto Mussolini, sfidandolo in parlamento dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. Ora, a quasi vent’anni dal delitto che aprì la strada alla dittatura, vive negli Usa. Da esule, come don Sturzo. E come il mentore di De Gasperi, dall’altra sponda dell’Atlantico tesse la sua trama politico-istituzionale sotto la protezione di Roosevelt. Nell’estate del 1942 ha riunito a Montevideo, nell’America meridionale, oltre diecimila italo-americani che hanno consacrato la sua guida dell’antifascismo laico e repubblicano. Dalla kermesse uruguaiana è uscito il suo programma per un’Italia democratica: governo di unità nazionale, Repubblica, adesione alla Carta atlantica, coopera zione internazionale. Quattro punti che costituiranno i piloni delle scelte strategiche dei governi capitanati da De Gasperi tra il 1945 e il 1953. Dopo la notte del 25 luglio 1943 – Mussolini sfiduciato dal Gran Consiglio e Badoglio alla guida di un governo provvisorio –, Sforza è il candidato naturale alla sostituzione del maresciallo. È il leader ideale per guidare la transizione verso il postfascismo. O almeno è questa una delle opzioni degli Stati Uniti e del fronte democratico. Ma Churchill non gradisce la sua scelta repubblicana e tantomeno la sua linea politica di unità nazionale. Prima che il conte rientri in Italia, dopo sedici anni di esilio negli States, lo convoca a Londra nell’ottobre 1943 per esprimergli il proprio disappunto. Ma Sforza è irremovibile. E la sua determinazione gli procura l’ostilità del premier britannico. L’idea di riciclare il “fascismo buono” e di mantenere i Savoia alla guida dell’Italia è ancora la stella polare delle strategie di Sir Winston. Un mese dopo il golpe e l’arresto del Duce per ordine di Vittorio Emanuele III, Dino Grandi, il gerarca che ha presentato al Gran Consiglio l’ordine del giorno di sfiducia a Mussolini, si presenta alla cassa per riscuotere il premio. Si precipita a Lisbona, dove gli Alleati e i badogliani stanno trattando la resa incondizionata dell’Italia, e da lì scrive al premier britannico, al quale lo lega un’antica amicizia consolidata negli anni in cui era ambasciatore italiano a Londra. Nella lettera, gli ricorda di essere sempre stato anglofilo e antitedesco e che ora si aspetta la gratitudine del Regno Unito. Dopo il primo messaggio, ancora senza risposta, l’ex gerarca ne invia un secondo, a cui allega un memorandum con una minuziosa descrizione del ruolo fonda mentale da lui giocato nella notte del 25 luglio, quasi a voler rinfrescare la memoria al governo inglese. Il fatto è che la risposta non arriva non solo perché i piani di Downing Street non collimano con quelli della Casa Bianca, ma anche perché divergono i punti di vista all’interno dello stesso governo britannico. E infatti il Foreign Office suggerisce al premier di non rispondere a Grandi, quantomeno di prendere tempo. «È un vero peccato», commenta Churchill con disappunto. E aggiunge: «Grandi potrebbe essere utile e servire con lealtà gli interessi alleati. Negli ultimi quindici anni il suo comportamento è stato positivo e funzionale ai nostri interessi. Egli è l’uomo che ha affossato Mussolini». L’artefice del golpe del 1943 è dunque una carta che Londra è decisa a giocare non appena le condizioni lo permetteranno. Ma per il momento resta in panchina, anche perché non c’è alcun bisogno di sostituire Badoglio. Il capo del governo provvisorio italiano, scrive un compiaciuto Churchill al presidente americano Roosevelt, si sta dimostrando «docile». Badoglio è insomma «interamente nelle nostre mani»…
Giovanni Fasanella e M. J. Cereghino
tratto dal libro “La maledizione italiana“, Fuoriscena – RCS, Milano, 2025
