QUEL CHE DICE E QUEL CHE NON DICE L’ORDINE DEL GIORNO GRANDI-BOTTAI
Prima documentare, poi commentare. Il celebre ordine del giorno approvato da 19 Consiglieri sui 28 presenti alle 2.20 del 25 luglio 1943 recita:
“Il Gran Consiglio del Fascismo […] esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza e la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia per la salvezza e l’onore della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
I gerarchi non proposero dunque la revoca e la sostituzione di Mussolini da capo del governo, né un nuovo governo, né la demolizione del regime di partito unico, né, meno ancora, l’armistizio separato. Proposero invece di “attribuire” alla Corona, al Gran consiglio (cioè a se stessi), al governo (così com’era: zeppo di mediocri esponenti del Partito fascista) e al parlamento (con la “Camera dei fasci” dal 1939 “nominati” anziché “eletti”) compiti e responsabilità che erano vigenti. Inoltre proposero al Re di assumere l’effettivo comando delle forze armate, mai personalmente esercitato da alcun sovrano dal 1848 al 1940, quando esso fu preteso da Mussolini, capo del governo e titolare dei tre ministeri militari. In tal modo i gerarchi cercarono di scaricare sulla Corona la responsabilità della guerra, dell’incombente sconfitta e quindi della ormai inevitabile resa.
Si chiamarono fuori dal regime, ma non poterono uscire dalla sua storia.
Aldo A. Mola
Nota storica
Non fu né congiura né “colpo di Stato”
Fu Vittorio Emanuele III a mettere fine al “regime” fascista.
Il pomeriggio del 25 luglio 1943 il Re revocò il Cavaliere (della SS. Annunziata) Benito Mussolini da capo del governo, informandolo che lo sostituiva con il Maresciallo Pietro Badoglio. Fece quanto previsto dall’articolo 65 dello Statuto: “Il Re nomina e revoca i suoi ministri”. A differenza di quanto poi asserito dal duce e viene ripetuto da “scrittori” tendenziosi, il “cambio” non fu né complotto né “colpo di Stato”. Nella revoca e nella nomina, da tempo in preparazione e (a quanto pare) ignote solo a Mussolini che credeva di sapere tutto ma veniva intercettato anche mentre parlava con Claretta Petacci, il sovrano prese le precauzioni dettate dalle emergenze. Mussolini non era solo capo del governo ma anche duce del partito unico, affiancato dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Bisognava scongiurare il rischio di reazioni incomposte o il ritorno alla guerra civile strisciante del 1919-1922. Alleata della Germania, l’Italia aveva gran parte dei propri militari “oltre i confini”, come documenta Paolo Fonzi (ed. Le Monnier), mentre dall’arco alpino alla Sicilia i tedeschi (sia indivisionati, sia “sfusi”) erano numerosi, bene armati e motivati. Infine l’assalto anglo-americano al territorio nazionale, la netta superiorità dell’aviazione nemica e i suoi pesanti bombardamenti non solo su installazioni militari, dalle ripercussioni imprevedibili, costringeva alla resa e al tempo stesso esigeva un cambio del regime politico, atteso dagli Alleati, divergenti nelle strategie ma uniti nella decisione di mettere fuori combattimento l’“Italia fascista”.
La “defascistizzazione” fu opera del Re e di Badoglio
Nei giorni precedenti la riunione del Gran Consiglio, esaminate le diverse prospettive del più che probabile governo Badoglio, il Comitato interpartitico condivise il parere di De Gasperi: liquidato Mussolini diveniva necessario un accordo con gli anglo-americani. Associarsi al futuro governo comportava di condividere il passivo della resa. Questa doveva gravare solo sul Re: capro espiatorio. Di lì la previsione di un “dissidio insanabile fra le aspirazioni del paese e la volontà della Corona”.
Il 27 luglio Bonomi presiedette due riunioni dei sei partiti antifascisti che “agitò molti problemi senza prendere conclusioni concrete”, andò a colloquio con Badoglio e ne trasse “una buona impressione”. Il Maresciallo non aveva perso tempo. Come documentano i Verbali dei suoi governi, pubblicati a cura di Aldo G. Ricci, quello stesso giorno Badoglio fece il necessario, senza attendere suggerimenti. Con ogni evidenza i regi decreti-legge del 27 luglio, pubblicati nella “Gazzetta Ufficiale” del Regno il 2 agosto, erano frutto di lunga preparazione, precedente il 25 luglio. Vanno ricordati perché costituirono la svolta voluta dal Re e attuata dal governo da lui nominato per aprire il dialogo con gli anglo-americani: soppressione del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo, del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, divieto di fabbricazione e uso di bandiere e emblemi di associazioni e partiti politici, abrogazione delle norme contenenti limitazioni in dipendenza dello stato di celibe, controllo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, conferma dello stato di guerra, movimento di prefetti (collocamento a riposo o a disposizione di quelli nominati per meriti fascisti) e altre misure urgenti per i ministeri di Guerra, Marina e Aeronautica.
A due giorni dalla sua formazione, il governo Badoglio varò la “defascistizzazione”. Deliberò anche lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, istituita con la legge 19 gennaio1939, n. 129: una decisione apparentemente “dovuta” ma al tempo stesso incauta. Lo evidenziò lo schema di decreto legislativo preparato per la seduta del 9 settembre (che però non ebbe luogo) e non fu più ripresentato. Esso ammise che “la chiusura della XXX legislatura e la carenza di uno dei due rami del Parlamento” derivante dallo scioglimento della Camera elettiva “rendono impossibile, per ora, l’esercizio della funzione legislativa da parte del Senato e, d’altra parte, la ripresa dei lavori parlamentari non potrà non essere preceduta della emanazione di nuove norme intese a disciplinare anche la materia suddetta”. Insomma, il governo avocò il potere di legiferare “per causa di guerra” anche in circostanze e per materie nelle quali “la causa di guerra non influisce menomamente”.
La sospensione del Parlamento sovraespose la Corona che affrontò la seconda e non meno impegnativa partita dell’estate 1943: uscire dal conflitto mentre, con il pretesto di soccorrerla, altre divisioni germaniche vi irrompevano in assetto di guerra. Ignara delle decisioni assunte dalle Nazioni Unite, l’Italia post-fascista riteneva di avviare trattative armistiziali e di avere diritto a riconoscimenti in misura del suo sostegno alla guerra contro la Germania, come prospettato dalla Dichiarazione di Quebec del 18 agosto 1943. Invece cozzò con l’imposizione della “resa senza condizioni”, decisa nella conferenza di Casablanca, il cui peso venne scaricato sulle spalle di Vittorio Emanuele III, come reiteratamente e rumorosamente chiesto dall’ala anti-monarchica più intransigente del comitato interpartitico presieduto da Bonomi. Cominciò ad affiorare l’intimazione di immediata abdicazione del sovrano. Divenne assordante dopo l’annuncio dell’“armistizio” e il trasferimento del Re e del governo da Roma a Brindisi il 9 settembre, vicende che meritano una ricostruzione obiettiva.
A. A. Mola