Simboli e firme Come arrivare ai blocchi di partenza delle elezioni – Gabriele Maestri

| |

Tra firme ed esenzioni

Quando si pensa di scrivere nuove regole del gioco per decidere chi scriverà le norme per gli anni a venire – le leggi elettorali, in fondo, non sono altro che questo – ci si interroga sempre su quali formule possano essere più adatte allo scopo. Si spendono molte parole (e una quantità imprecisata di tempo) su collegi, numeri di seggi e loro distribuzione, sbarramenti, divisori, resti…. È inopportuno dimenticarsi, però, che è altrettanto importante capire chi può partecipare alle elezioni, presentando candidature di lista o individuali, e a quali condizioni.
In Italia, visto anche il nostro amore-odio per la burocrazia (ce ne lamentiamo tutti, sempre, ma sembra che non sappiamo farne a meno), siamo stati abituati per anni a ragionare in termini numerici, soprattutto con riguardo alle firme: chi è in grado di esibire una certa quota di sottoscrittori può partecipare, chi non riesce a fare nemmeno quello si accontenta di votare. Da oltre quarant’anni, però, le cose sono cambiate: c’è chi deve raccogliere le firme e chi può evitarlo, c’è chi deve sforzarsi prima di iniziare la campagna elettorale e chi ci arriva tranquillo, magari dopo essere entrato per il rotto della cuffia nel club degli esonerati. Se davvero si vuole scrivere una nuova legge elettorale, pensando a quella che individuò i membri dell’Assemblea costituente, occorre ripartire da lì e capire chi, da allora a oggi, si è potuto candidare, in base a quali regole e con quali problemi o “ingiustizie” di fondo. Giusto per capire meglio come organizzarsi per il futuro.

I primi trent’anni della raccolta firme

Quando si scrissero le norme per eleggere i membri dell’Assemblea costituente, si scelse di facilitare la partecipazione ma di non aprirla indiscriminatamente, cercando di garantire un minimo di serietà delle candidature, mettendo tutti sullo stesso piano. Per questo, nelle prime elezioni nazionali dell’Italia post-bellica, nessuno si sognò di mettere in discussione l’istituto della raccolta delle sottoscrizioni: in base al decreto legislativo luogotenenziale n. 74/1946 – la legge elettorale per la Costituente – occorrevano almeno 500 e non più di 1000 firme di elettori per ciascuno dei 32 collegi previsti in quell’occasione (compresa la Valle d’Aosta). Questo voleva dire che, se nel collegio di Roma, Viterbo, Latina e Frosinone 500 firme pesavano per lo 0,028%; nel collegio meno popoloso (quello di Potenza e Matera) pesavano ben di più, per lo 0,155%.
Nel 1948 – anno in cui gli elettori risultavano essere 29.117.554 – alle prime elezioni successive alla fase costituente, alla Camera servivano ancora tra le 500 e le 1000 firme in ognuno dei 30 collegi plurinominali previsti: prendendo il valore minimo della forchetta, si trattava di una percentuale che andava dallo 0,208% (collegio di Campobasso) allo 0,027% (collegio di Roma, Viterbo, Latina e Frosinone) della rispettiva platea di elettori (il numero considerato è quello riportato dall’Archivio storico delle elezioni del Ministero dell’interno).
Alle elezioni del 1963 le sottoscrizioni richieste erano rimaste le stesse, anche se nel frattempo la popolazione era aumentata: volendo fare le proporzioni con gli stessi collegi, le percentuali erano scese allo 0,197% (Campobasso) e allo 0,020% (Roma, Viterbo, Latina e Frosinone). Forse era diventato troppo poco, così poco da far dire nel 1965 al costituzionalista Giuseppe Ferrari, che in quell’anno aveva scritto la voce Elezioni (teoria generale) per l’Enciclopedia del diritto Giuffrè, che il numero delle firme richieste per le elezioni politiche era troppo basso, mentre era forse troppo alto per quelle amministrative, al punto da conseguire «solo approssimativamente ed apparentemente lo scopo di assicurare la serietà delle candidature».

l “peccato originale”: l’introduzione delle esenzioni

Non dovevano essere d’accordo con Ferrari i partiti negli anni ‘70: non solo non aumentarono il numero di firme richieste, ma pensarono di sollevarsi almeno in parte da quell’onere, che anzi risultava troppo pesante ai loro occhi. Bisognava trovare un altro modo per dimostrare la consistenza e la solidità delle loro proposte politiche: si ricorse un’altra volta ai numeri, stavolta però non riferiti ai cittadini sottoscrittori. Dall’inizio, infatti, si trovarono tutti d’accordo nel dire che la presenza di un partito nelle assemblee elettive maggiori, a partire dal Parlamento, poteva essere di per sé un indice di “comprovata rappresentatività” (un’espressione che ancora oggi si usa): in quei casi, dunque, non occorreva provare il seguito delle forze politiche con le firme.
Grazie alla legge n. 136/1976, non dovettero più cercare sostenitori i partiti costituiti in gruppo parlamentare anche in una sola Camera (il gruppo poteva essere stato costituito all’inizio della legislatura o anche in corso d’opera) e nemmeno i partiti che “nell’ultima elezione abbiano presentato candidature con proprio contrassegno e abbiano ottenuto almeno un seggio in una delle due Camere”: in questo caso bastava una rappresentanza minima, ma occorreva essersi già sottoposti alla prova del voto e aver ottenuto una prova concreta che si era riscosso un minimo di interesse tra gli elettori. Chi non era in una di queste due condizioni, avrebbe dovuto raccogliere dalle 350 alle 700 sottoscrizioni in ogni collegio plurinominale. Il taglio era stato significativo, anche perché nel frattempo la popolazione elettorale era aumentata: nel 1975, infatti, si era stabilito per legge che si diventava maggiorenni al compimento dei 18 anni. Prendendo i soliti due collegi – immaginando che rappresentino ancora gli estremi, ma non è affatto detto che sia così – le percentuali erano scese ulteriormente allo 0,141% (Campobasso e Isernia) e allo 0,01% (Roma, Viterbo, Latina e Frosinone). Anche per chi era rimasto fuori dal beneficio, dunque, l’asticella oggettivamente si era abbassata (e, particolare non trascurabile, il fatto che alcuni partiti fossero esenti dalla raccolta “liberava” firme per i soggetti che invece dovevano raccoglierle, aumentando in teoria la platea dei soggetti che potevano partecipare al voto).

Degenerazioni di ogni tipo

Quelle prime eccezioni introdotte nel 1976, in qualche modo, potevano apparire ragionevoli; con la legge n. 53/1990, invece, furono lanciati i semi per una degenerazione totale del sistema. Una cosa utile oggettivamente la fece, allargando la platea dei soggetti in grado di autenticare le firme degli elettori, in modo che le forze politiche potessero organizzarsi meglio per la raccolta (in seguito, peraltro, si sarebbe esagerato anche lì); sul piano delle esenzioni, però, introdusse nuove ipotesi di esonero dalla raccolta firme, di per sé non irragionevoli ma pronte a formare un quadro avvilente insieme a tutte le altre.
Da una parte quella legge consolidò l’esenzione anche ai partiti che avevano ottenuto almeno un eletto al Parlamento europeo: era stata aggiunta nel 1984 ala vigilia della seconda tornata di elezioni europee per favorire chi aveva anche solo un europarlamentare uscente, ma nel 1990 si scelse di applicarla anche alle elezioni politiche, pretendendo almeno che la lista esente utilizzasse lo stesso simbolo con cui aveva ottenuto l’eletto. Dall’altra parte, però, si decise che non avrebbero dovuto raccogliere le firme nemmeno le forze politiche che presentavano contrassegni compositi, che cioè nell’emblema elettorale complessivo contenevano il simbolo di una forza già esente (perché aveva un suo gruppo parlamentare, almeno un deputato o senatore eletto con il suo simbolo o un europarlamentare uscente).
Quest’ultima nuova regola, di fatto, legittimò la pratica della “pulce”, in uso da almeno una decina di anni ed elaborata – dopo varie sperimentazioni sempre più ardite – facendosi strada tra le pieghe delle prime discipline derogatorie alla raccolta firme: proprio per sfruttare le esenzioni, era diventato normale che un partito o una lista partecipasse alle elezioni locali e regionali (ma anche europee…) inserendo nel propri contrassegno di lista la miniatura di un partito nazionale che a sua volta non doveva raccogliere le firme. Questa novità avrebbe avuto effetti perversi in seguito, permettendo la corsa elettorale a partiti nuovi o comunque piccoli grazie alla “pulce” delle forze parlamentari più piccole e non troppo interessate a partecipare a quel turno elettorale voto: alle europee, come si è visto nel 2019, sarebbe bastato il sostegno di un partito europeo che non aveva avuto eletti in Italia o addirittura di un partito di un paese qualunque dell’Unione europea che fosse riuscito a eleggere un europarlamentare…
Un primo freno agli eccessi da esenzioni, in effetti, arrivò con l’approvazione della “legge Mattarella”, basata per la maggior parte sui collegi uninominali, pose un freno. Alle elezioni del 1994, 1996 e 2001 nessuno fu esonerato: si dovettero raccogliere dalle 500 alle 1000 firme per ogni candidato da presentare in un collegio uninominale della Camera, mentre le liste per la quota proporzionale dovevano essere sostenute da un numero di sottoscrizioni che variava in base alla popolazione (1.500-2.000 nelle circoscrizioni fino a 500mila abitanti; 2.500-3.000 nelle circoscrizioni tra 500mila e un milione di abitanti; 4.000-4500 per le circoscrizioni sopra il milione di abitanti).
In Molise, dunque, nel 1994 le firme necessarie per una lista proporzionale erano pari allo 0,478% degli elettori, nella circoscrizione Lazio 1 (Roma) allo 0,126%, mentre per la Lazio 2 (le altre province) si arrivava allo 0,336%. Le percentuali, dunque, si erano alzate in generale, soprattutto per le circoscrizioni meno popolose o per quelle con popolazione vicina al valore minimo di fascia; nel 2001, visto l’aumento della popolazione, calarono un po’, ma nemmeno di molto.
Nel 2006, alla prima applicazione della “legge Calderoli”. si tornò alle pessime abitudini (di cui, evidentemente, c’era una gran voglia o un gran bisogno). Si reintrodussero le esenzioni, che quella volta sollevarono dalla raccolta i partiti che contavano su un gruppo parlamentare in entrambe le Camere dall’inizio della legislatura, quelli rappresentativi di minoranze linguistiche che avessero eletto almeno un parlamentare e – l’ipotesi più complicata e discussa – i soggetti politici con un seggio al Parlamento europeo e coalizzati con almeno due liste esentate per la rappresentanza parlamentare, a patto che alle politiche utilizzassero lo stesso emblema con cui avevano eletto l’europarlamentare a Strasburgo: l’ipotesi, piuttosto macchinosa, esentò Alternativa sociale, ma di fatto tra le forze politiche maggiori l’unica a dover raccogliere le firme fu la Rosa nel pugno (che aveva due parlamentari europei, eletti però con la lista Bonino e non con il simbolo che voleva presentare insieme allo Sdi).
Chi non era esonerato, dovette raccogliere per presentare liste nelle circoscrizioni lo stesso numero di firme previsto nel 1993: unica concessione per chi sgobbava ai tavolini, il numero sarebbe stato ridotto della metà in caso di elezioni anticipate.

Un’emergenza continua?

Per non farla troppo lunga, nel 2006 si è inaugurata una tutt’altro che gioiosa tradizione che non ha visto mai applicato il regime “ordinario” di presentazione delle candidature. Lo si deve soprattutto alla sempre maggiore debolezza dei partiti: all’inizio, in effetti, la si poteva scambiare per pigrizia, ma al di sotto si nascondeva la crisi profonda che sarebbe emersa con forza negli anni successivi. Nel frattempo, a intervalli sempre più ravvicinati, sono spuntati come funghi scandali legati alla falsificazione delle firme, che evidentemente in pochi – tra i soggetti non esenti – riuscivano a ottenere in modo regolare. Non ci si è fatti mancare nulla: gente che sottoscriveva moduli senza sapere cosa fossero, persone le cui generalità erano state prese da imprecisati elenchi – anche se nel frattempo erano passate a miglior vita – e la cui firma era stata contraffatta, autenticatori che hanno autenticato a loro insaputa (nel senso che qualcuno aveva taroccato la loro firma) e altre meraviglie più o meno raccontabili.
Già nel 2006, in ogni caso, dopo aver approvato la “legge Calderoli” alla fine dell’anno precedente, si dovette intervenire per decreto per dimezzare le firme da raccogliere anche in quell’occasione: in effetti il voto politico del 2006 non era arrivato oltre 120 giorni prima della fine della legislatura, ma quel dimezzamento era visto come necessario e lo si fece. Nel 2008, con un voto anticipato di tre anni rispetto alla scadenza, il taglio sarebbe stato comunque valido, ma con un altro decreto-legge si volle allargare una tantum l’esenzione, per non scontentare quasi nessuno: ne beneficiarono tutti i partiti cui avessero dichiarato di fare riferimento almeno due eletti al Parlamento europeo o alle Camere; in corso di conversione del decreto, addirittura, si precisò che quei due potevano stare nello stesso ramo del Parlamento ma anche uno alla Camera e uno al Senato (e questo per un motivo molto semplice: tra le forze che aspiravano all’esenzione c’era anche Sinistra critica che in corso di legislatura aveva racimolato due parlamentari, ma non sedevano nella stessa aula…).
Nel 2013, sempre con decreto, oltre ai soggetti costituiti in gruppi parlamentari in entrambe le Camere, si estese l’esonero dalla raccolta firme ai partiti rappresentati da “componenti politiche all’interno dei gruppi parlamentari, costituite all’inizio della legislatura”; si tagliò del 40% il numero di firme richieste ai partiti che avevano un gruppo solo in una Camera e – per tutti i partiti privi di esenzione – la quota di firme richieste fu comunque ridotta una tantum a un quarto di quelle previste per legge.

La situazione insostenibile di oggi

Nel 2018, da ultimo, la “legge Rosato” ha preteso che, come regola, le liste raccogliessero tra le 1500 e le 2000 firme in ogni collegio plurinominale, assai più ristretto rispetto a una circoscrizione del passato. Nel sempre citato Molise circoscrizione e collegio coincidono, ma il calo della popolazione ha portato la quota di firme richieste allo 0,59%; in Lazio, invece, sono stati ricavati ben cinque collegi plurinominali, il meno popoloso dei quali – Lazio 1/01 – richiedeva una quota pari allo 0,226%. Si è di fronte a una difficoltà certamente maggiore per chi era obbligato a far sottoscrivere le liste: una lista, per essere presente sulle schede in una circoscrizione e non vedersi respingere tutte le candidature, per legge deve riuscire a raccogliere le firme in due terzi dei collegi plurinominali di quella circoscrizione, quindi lo sforzo richiesto non è lieve.
In compenso, la stessa legge elettorale aveva previsto che fossero esonerati dalla raccolta – come nella “legge Calderoli” – i partiti con un gruppo parlamentare in entrambe le Camere, ma anche, solo alla prima applicazione della legge, i partiti che avessero potuto contare su un gruppo parlamentare anche in una sola Camera alla data del 15 aprile 2017; di più, grazie a un emendamento alla legge di bilancio (una pratica di dubbia legittimità, certamente inopportuna), il numero delle firme è stato tagliato di nuovo una tantum a un quarto della quota normale.
Quale Parlamento sia uscito da queste norme, è cosa nota: solo cinque partiti con gruppi in entrambe le Camere (M5S, Pd, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia), dunque esenti in base alla legge elettorale (assieme alla Svp), mentre tutti gli altri dovrebbero superare un ostacolo non proprio alla portata di partiti ormai debolissimi sul territorio. A meno che, naturalmente, non si scelga di intervenire modificando le regole per poter iniziare a giocare.
Se invece, come da queste parti si suggerisce, le regole le si vogliono riscrivere daccapo, magari guardando all’esempio della Costituente, occorre riflettere bene. Si può decidere di riconoscere un vantaggio alle forze politiche rappresentate in questo Parlamento o in altre assemblee elettive (Parlamento europeo, consigli regionali), risparmiando loro la raccolta richiesta alle altre compagini; si può anche scegliere di mettere tutti allo stesso livello, imponendo a tutti la raccolta dello stesso numero di firme, valutando l’altezza dell’asticella da superare (più alta per verificare la serietà della proposta, più bassa per allargare la platea dei concorrenti). Sono tutte scelte legittime: l’importante è pensarci e non lasciare nulla al caso, se si vuole ripartire seriamente.                                                                                                                                            I Simboli utilizzati alla Costituente

 

Precedente

La Riforma costituzionale di Riduzione dei Parlamentari. La variante invariante. Leggi Elettorali per le elezioni Politiche. I “seggi” possono volare? Sì, certo – Daniele Vittorio Comero Osservazioni sulla costituzionalità della Riforma costituzionale soggetta a referendum Felice C. Besostri

Restituiamo Rappresentanza al Parlamento – Paolo Antonio Amadio, Ignazio Rosenberg Colorni, Felice Carlo Besostri, Sergio Scotti Camuzzi

Successivo

Lascia un commento